martedì 30 settembre 2014

L'algoritmo del Polpetta

Ho appena compreso che anche il Polpetta ha il suo algoritmo e sto cercando di valutarlo con la stessa freddezza mentale di Zuckerberg.
Sì, lo so, è scontato, me lo avevano già detto in molti, ma il Polpetta era piccolo, così dannatamente piccolo! L'altro ieri aveva due giorni! Si limitava a piangere, scimmiottare, sillabare. Era tutto un dispiegar di bave e sorrisi e se i sorrisi erano i suoi, le bave erano le mie. Perché, sì, io colavo gioia sopra questi suoi declassamenti verbali e il suo prodigarsi così lentamente verso l'arte della comunicazione mi appariva più come un pellegrinaggio che non come un'evoluzione umana. Ero ovviamente fuorviata dai giudizi esterni, dalle dinamiche familiari altrui e poi io volevo parlarci con questo bambolotto che invece si ostinava ad accaparrarsi la tetta, senza chiedere mai il permesso.
Poi è successo. Lo sapevo.
Ieri il Polpetta ha detto merda. Non cacca, no. Proprio merda. E non indicava il vasino, non prendeva possesso del pannolino, no. Scuoteva il telecomando, fissava la televisione buia e se ne usciva con un lapidario merda.
Bene. Ovvio.
Quel merda era mio. Mica suo. Sebbene l'imprecazione maschile, lo sguardo fisso sullo schermo e il telecomando in mano ricordassero più l'origine paterna; la parola, il lemma, l'incauto pensiero era tutto mio. Mio. Mio. Mio.
Io sono una portatrice sana di parolaccia, una che ne fa uso come rafforzativo dei pensieri, una che alle volte forse ne abusa, una che sicuramente spesso ne abusa.
Il punto però è un altro. Che mio figlio sia entrato ufficialmente nella fase del repetita iuvant è cosa piuttosto scontata, non ero pronta, non ci pensavo affatto, ma è cosa risaputa e va bene, ma che mio figlio possa diventare così il mezzo con cui visualizzo tutto quello che transita dalla mia bocca è un qualcosa che non avevo preso in considerazione e convengo che questo un po' mi terrorizza.
Il suo algoritmo è basato sull'assimilazione. Lui osserva e registra tutto quello che gli alito addosso, smista e ridistribuisce. Mi dice che il cane abbaia, no "bau", bau è da sciocchi, la mamma dice "abbaia", non dice bau. Il papà è il Papi, non ci sono variabili e la mamma lo sa perché lo chiama sempre così. Il letto della nanna è giallo anche quando è viola, perché la mamma canta sempre la canzone del letto giallo, mica quella del letto viola, e allora è giallo anche se è viola, rosso o blu. Sempre. Perché lo dice la mamma.

E più mi ripeto, anche incoscientemente, senza valutare il suo ascolto, più si applica nel condividere il pensiero, nel metterlo in bacheca, nel renderlo pubblico e ripresentarmelo poi sotto forma di allegro mosaico infantile.
Lui conosce ogni declinazione del mio profilo. Mi chiama insistentemente ammore. Perché io clicco sulla parola amore una quantità smisurata di volte. Realizzo così che il mio antro di bestia è un posto lugubre e buio dove però, se cerchi bene, ci sono anche dei fiori mai visti, degli squarci di luce pazzesca. Allora lo alzo, lo bacio in fronte, e cestino l'idea del silenzio, perché il suo algoritmo ha bisogno di dati e io sono il suo imbuto, il suo contagocce, la sua maniglia sul mondo. Le parole vanno annusate, ammaestrate, coccolate. Regalate.
Ho una grande responsabilità, lo so. Ecco perché stamattina gli ho insegnato una parola nuova che da qualche ora sillaba lentamente, quasi volesse assaporarne per intero la consistenza.

Li be ro.

Nicolò, questa è una parola da amare. Tienila stretta, portala a spasso, impara ad accudirla. Un giorno la userai e ti aprirà al mondo, quando il mondo si aprirà a te.

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