lunedì 30 giugno 2014

Amore, sono incintO!

In questi giorni mi sono chiesta spesso se mi sarebbe mai salito il desiderio di impantanarmi volontariamente nella vita di un padre, ogni volta mi dicevo che sì, lo avrei fatto, perché io c'ho proprio il piglio di una che se le va a cercare e poi però mi dicevo "lo faccio domani".
Ma dato che i posticipi mi fanno lo stesso effetto della caponata, direi che questa è la mattinata giusta per affrontare la questione.
Quando mi è sorto il dubbio di essere incinta l'ho detto al Papi e, mentre ingoiavo la lingua comodamente seduta sul bidè, lui sorrideva. Io mi lasciavo inondare di terrore e lui continuava a sorridere. Diceva poco, non osava pronunciarsi. Era in attesa e quella di un uomo è una doppia attesa.
Quel barilotto sigillato sotto al mio ombelico lo attirava come una boa in mare aperto. Mi appoggiava la radio sulla pancia. Mi zoomava con la videocamera sul fianco. Ancorava il suo orecchio all'addome e si impegnava in vocalizzi azzardati. Così, quando il Polpetta ha mosso il primo strato di membrane con un calcio, il dialogo tra padre e figlio era già avviato. Tra loro era già comunicazione attiva. Il Papi cantava la sigla di Babar e il Polpetta si alzava in piedi. Il Papi raccontava la storia della Lucertola Berta e il Polpetta si puntellava con i gomiti sul mio rene destro.
L'attesa di un padre ha un qualcosa di misterioso. Loro non ce l'hanno il reflusso gastrico a ricordargli che sono incinti, però ogni sera fissano con ostinazione il tuo profilo e registrano ogni mutazione. Non ci provano neppure a immedesimarsi in quel tuo strano modo di vivere, ma si aggrappano ogni sera alla tua pancia, la abbracciano nel tentativo di allargare i confini di quel loro ventre piatto e muto.
Poi parte il travaglio, parte il dolore, parte la loro dolorosissima partecipazione, perché credo che assistere al dolore di chi amiamo è una dannazione smisurata. Lo dico e lo penso, ma ammetto anche di aver tentato di assassinare il Papi durante tutto il travaglio, ma questa è un'altra storia, CSI ha già chiesto i diritti del mio parto e pertanto non ne parlerò.
E' quando torni a casa che gli ingredienti iniziano a mescolarsi ben bene e l'ingranaggio può incepparsi, qualche volta ci si trova a fare i conti con svariati grumi di cemento solidificato e qualche volta i grumi provi anche a ingoiarli, ma il più delle volte ti fai solo del male. Perché una mamma, una volta a casa, subisce il distacco da quel suo mondo interiore e non la vive sempre bene, dall'altro lato poi c'è un padre che si fa avanti come un bersagliere e prova e riprova ad addormentare il suo cucciolo e il più delle volte non ci riesce, ci rimane male, pensa "e io a che cazzo servo se quello vuole sempre la mamma?" e allora si allontana e poi si riavvicina e poi si riallontana. E così scopre - qualche volta da solo, qualche volta su indicazione - che una convivenza di nove mesi non la debelli in otto settimane. E allora si parcheggiano nuovamente in seconda fila e tornano ad aspettare. Perché se un bambino è stato nove mesi dentro un barattolo di calda essenza materna e poi si ritrova altrove, non si lascia convincere così facilmente che fuori è meglio. Tutto sommato dentro la pancia c'era tutto! La mamma che rideva, parlava, si lamentava, e il papà che rideva, parlava e che poi - quando calava il silenzio - teneva stretto tutti e due, senza perdere mai la presa.
I nove mesi di una mamma si sviluppano piano, in profondità, con mutazioni millimetriche e poi si allargano fuori, sempre più rapidamente, con rivoluzioni apocalittiche. L'attesa di un padre invece ha una durata maggiore, la gravidanza di un padre inizia quando il barattolo si apre ed è un percorso pieno di variabili che nessuno potrà mai risolvere se non sbattendoci dentro il naso.
Il trucco sta nel continuare a stringere quel barattolo, anche se sembra vuoto, anche se alle volte rotola via e sembra non voler tornare più indietro, perché se una mamma dopo il parto diventa l'impronta del figlio, il padre dopo una nascita diventa il contenitore di entrambi e un abbraccio è il prezioso barattolo dentro cui ogni figlio vorrebbe stare.

domenica 29 giugno 2014

INSTADAD: Stefano Fronza, un padre in attesa


Stefano Fronza
inchiostro su carta


"Cammino per la strada.
Una nota, un segno
mi fan fermare.

Nel letto mi ritrovo ora insieme a te
ascolto i suoi battiti
e guardo la tua pancia ora pulsare."
                 


giovedì 26 giugno 2014

La paura di noi.

Io provengo da una stirpe di nobili paurosi. Il cuore in subbuglio è una costante.
C'è che alle volte non ti senti neppure all'altezza e non sai da che parte cominciare.
Le prime due linee di febbre di tuo figlio ti inducono a misurarla ogni sei minuti, con tre termometri diversi, infilati in pieghe, buchi, anfratti, sempre differenti. Alla fine avrai diciotto temperature diverse e non saprai cosa fartene così chiamerai il pronto soccorso e una voce rassicurante ti dirà "signora ce l'ha la tachipirina?" e tu dirai che sì, ne hai di tre tipi diversi: sciroppo, gocce, compresse. E così via, finché non ti sarai fatta la mano e un giorno scoprirai che ti basterà dare un'occhiata a tuo figlio per stabilirne la temperatura; saprai distinguere il pianto di dolore da quello di paura; progetterai l'apertura di un'attività di pulizie nasali e diventerai l'imperatrice dell'aerosolterapia. Ti affiderai all'omeopatia, alla cartomanzia, all'oroscopo. Ogni possibilità che ti verrà data per far star bene tuo figlio sarà studiata e scartabellata. Obnubilata dalla pasta di zinco prenderai per buono ogni suggerimento e finirai per spalmare sulla botta di tuo figlio burro, maionese, arnica, salsa tartara.

Eppure tutto segue un suo percorso specifico e per quanto ci si ostini a tentare di frapporsi tra le paure materne e la strada di un figlio, il dolore non potrà mai essere debellato da una mamma.

Io avevo paura di non saperne mai a sufficienza. Poi una mattina - il Polpetta aveva 28 giorni di vita - lo hanno ricoverato d'urgenza, intubato, operato.
Il cuore mi era diventato una spugna. C'erano lacrime ovunque. Non riuscivo a smettere. Gocciolavo amore.
Poi me lo hanno rimesso in braccio e l'amore è tornato tutto al suo posto, non si disperdeva più a casaccio, non ero più un vaso rotto.
Forse qualche sbrecciatura è rimasta, lassù in alto, dentro la testa, perché certe cose non le dimentichi mai del tutto, perché se cade o si ammala il cuore fa un salto in più. Ma va bene così. Certe paure aiutano, aiutano a svelarci come siamo fatti, a farci vedere quello che da soli non saremmo mai in grado di vedere neppure sotto dettatura. In quei giorni ho fatto cose che mai e poi mai avrei pensato di riuscire a fare e non ho avuto un solo tentennamento, era come se fossi sempre stata lì, ero diventata una nave e il mare non mi spaventava più.
In terapia intensiva neonatale ho conosciuto madri eccezionali, donne che la vita ha messo subito alla prova, esseri umani che hanno partorito due volte nel giro di poche ore: la prima volta dando alla luce un figlio, la seconda volta rigenerando se stesse.

Perché non esistono sentimenti inutili, ma modalità sbagliate e perché le paure se affrontate fanno crescere, mentre quelle subite fanno solamente invecchiare.

martedì 24 giugno 2014

Outing 1.3

Ogni bambino deve essere lasciato libero di crescere. Educare, nella primissima fase di vita, può diventare una limitazione, non una possibilità.
Gli adulti spesso credono di sapere cosa è meglio per un figlio, ma in realtà stanno solo accontentando se stessi.

(Il primo che dice: non hai studi in merito e non puoi permetterti di fare certe affermazioni, vince una lenticchia di cartapesta.)

lunedì 23 giugno 2014

Tre cuori e una valigia


Accadeva già quando eravamo dei fidanzatini di primo pelo. Si organizzavano le vacanze, si generavano le partenze e te lo ritrovavi comodamente seduto sul divano, col bagaglio infilato sotto i piedi. Riusciva a comprimere quindici giorni di mare dentro una ventiquattrore, mentre io per ventiquattro ore di assenza necessitavo di due zaini, un beauty e tre container di scarpe.
Ora cosa è cambiato? Nulla. Si siede sul divano, contempla il suo microbagaglio da ragazzo di poche necessità e ti osserva. L'unica variabile è la complicità del Polpetta che lo imita, mordicchiando il suo ciuccio con la stessa foga con cui scodinzolerebbe se solo avesse una coda.
E allora ti siedi, prendi una penna, dodici fogli e inizi a strutturare un'equazione dalle dinamiche irrisolvibili. Una settimana, sette giorni, sei per sette quarantadue, più due quarantaquattro, ma già che ci siamo facciamo ottanta pannolini (che non si sa mai). Tredici bavaglini, quattro ciucci, tre berretti (con visiera e senza), settantadue body, trentasei tutine (di ciniglia e non), otto paia di calzini, pantaloncini (corti e lunghi), un tubo di crema, una damigiana di detergente, il tagliaunghie, le sue posatine, il suo bicchierino, il suo bel piattino. E potrei proseguire, ma sono certa che finirei per ingannare qualcuno. Io tutte queste cose poi non riesco mica a portarle a destinazione. E per un motivo tanto semplice quanto ovvio: la macchina è occupata per due terzi e tu devi ancora chiudere la valigia. Il passeggino, che dovrebbero dotare di targa e bollo, porta con sé qualcosa di ostile allo spirito vacanziero. Togli due ruote, preghi in sei lingue diverse, invochi tutti i santi e riesci a chiudere il cofano, ma poi ti sale l'ansia perché hai ancora tutto un mondo da caricare e non sai dove metterlo. Allora ti volti e vedi i vicini di casa che ti guardano con aria di rivincita mentre, con un ghigno malefico, riempiono l'orribile bara grigia che il Papi si è rifiutato di montare sull'auto e che per anni hai deriso senza pudore.
Ma non è questo il punto!
Dove il Papi ha generato un pensiero fatto di tre elementi: mutande, schiuma da barba e computer. Tu sei solo allo smaltimento oggetti bambino. Ti arrovelli e non hai ancora realizzato che per tutta la settimana indosserai la stessa tuta da ginnastica. Ed è a quel punto - quando avrai concluso che pur di lavare tuo figlio dentro la sua comoda vaschetta a forma di papera rinuncerai alle scarpe girando scalza come un orango - che il Papi ti avrà già guardata sei volte e si sarà lasciato sfuggire tre irritanti sospiri. I sospiri di una donna elencano ottocentoventidue cose che vorrebbe dire (e che poi effettivamente dice), quelli di un uomo si riducono a un solo e unico elemento che non dirà mai, ma che riporta il seguente chiarissimo sottotitolo: sei nervosa e non ne capisco il motivo.
Ti guardano come si guarda una squilibrata e a un certo punto credi persino di esserlo, perché quella valigia infernale non si chiude, tu sei ancora in mutande, il Polpetta ti tira il mignolo del piede perché vuole giocare e il Papi tamburella i polpastrelli sul suo bagaglio pronto da ore.
Potresti parlare ma non lo fai, lasci che il fastidio ti fermenti dentro, chiudi la cerniera del primo borsone con così tanta foga che sale una bava di fumo e - solo allora - il Papi si alza! Afferra tutti gli oggetti che hai sapientemente sparso per la casa - tutti - e come un giocoliere inizia a infilarli in ogni anfratto dell'auto. Tu rimani lì a guardarlo stremata, mentre in tre minuti esatti ha chiuso la questione con un lapidario: ci voleva tanto?
Allora ti giri, cerchi qualcosa per colpirlo mortalmente, ma trovi solo un orso di pezza, due libri di gommapiuma, un cuscino a forma di maiale.

E' il Polpetta che - come sempre - risolve la questione. Si avvicina spingendo il pallone, si alza in piedi e mi prende la mano. A lui della vaschetta a forma di papera non gliene importa niente. Potrei anche decidere di non lavarlo per sette giorni filati, perché anche il suo bagaglio da maschio prevede solo tre elementi: la sua palla, il suo papà e la sua mamma.

domenica 22 giugno 2014

INSTAMUM: Eleonora Manfroni e l'abbraccio che custodisce nel cuore


Eleonora Manfroni
acrilico su tela 30x30

"Questo dipinto parla di un abbraccio, mai potuto dare nella realtà al mio piccolo Tommaso... ma che nel mio cuore è vivo e reale ogni singolo istante di ogni singolo giorno..."


"Vorrei dire che un bimbo perso, non è perso per la sua mamma che lo custodisce al sicuro nel suo cuore. Per sempre. Ma vorrei anche dire che una donna che perde un figlio durante l'attesa o nei giorni successivi alla sua nascita, diventa necessariamente qualcosa di diverso da quello che era. Perchè il dolore ci forgia, ci mette alla prova e allo stesso tempo ci fa scoprire e maturare nuove e spesso inattese risorse personali. In una parola, fa di noi delle persone migliori.
Forse è questo il dono che i bambini speciali fanno alle loro mamme. Forse è per questo che i bambini speciali hanno delle mamme speciali."

(tratto da Quando l'attesa si interrompe di Giorgia E. Cozza)

mercoledì 18 giugno 2014

Il Polpetta e la disfatta di Kevin Costner



Voi ce l'avete un'amica che vi interroga sulla messa a letto di vostro figlio? E quante volte dite la verità?
Io generalmente bofonchio, gigioneggio. Mi pulisco gli occhiali, mi gratto un tallone, cerco qualcosa nella borsetta (e come ben sapete questo porta sempre a stati di ingestibile amnesia momentanea).
Il punto è che ho davanti una donna che freme dalla voglia di sbobinare le regole della buona messa a letto e quindi so già dove andrà a parare. Mi interrogherà. E io - come davanti alla prof di matematica - improvviserò, nella piena consapevolezza di non poterla uguagliare. Sono troppe le variabili e io generalmente mi impiglio in tutte.
C'è quella che a quindici giorni dal parto lo ha messo a dormire in camera da solo e lui c'è stato senza dire nulla, perché è un bravo bambino. Certo, cosa poteva fare? Mandarle i sindacati a casa? C'è quella che ti racconta di come il piccolo, solo a sfiorare la culla, cade in trans, perché il trucco sta nel convincerlo che quello è il suo posto nel mondo. Quella che "si addormenta sempre con Chopin". Quella che "gli accendo il carillon e si gira magicamente su un fianco". Quella che "sto lì un secondo e dorme". Quella che "non gli spengo neppure la luce perché sa già dov'è l'interruttore". No dai, l'ultima me la sono inventata ma era per rendervi l'idea.
Perché se lo fai dormire nel lettone lo vizi. Perché se lo addormenti in braccio lo abitui male. Perché se si addormenta al seno poi non te ne liberi più. Perché se lo lasci piangere poi capisce da solo che deve smetterla. Ecco, l'ultima non me la sono inventata, purtroppo è un'affermazione tanto vera quanto detestabile, eppure ha il suo seguito che rispetto e non condivido.
Questi bimbi prodigio non hanno la dipendenza da lobo che ha il Polpetta. Il mio orecchio è il suo orecchio. Lo prende, lo stropiccia, lo arrotola. A fine giornata sembro un cocker. E pensate che fino a qualche tempo fa si inerpicava come uno speleologo dentro le narici. Poi gli è passata e il mio ottorino ha ricominciato a parlarmi.
Il Polpetta dorme nel suo lettino. In camera con noi. La mattina ci sveglia, in piedi, come una vedetta, mostra il suo leopardo di pezza e sorride. Quale migliore risveglio, dico io?
La logistica a casa ha un suo momentaneo disguido organizzativo. Spostiamo armadi, ruotiamo letti, e però non siamo ancora riusciti a trovare un punto esatto in cui farci stare il suo piccolo castello. Siamo due pigri. Forse non ce ne importa neanche così tanto. Fingiamo di dimenticare. Io sposto l'armadio di cinque cm verso destra, il Papi di trenta verso sinistra e i mobili - casualmente - non trovano mai il loro posto nel mondo.
Lo addormento sul divano, davanti alla tv, oppure sul letto, tra una carezza e l'altra. A noi l'educazione ci fa pure un po' paura. Una notte si dorme, due no, qualche volta mi stanco, qualche volta invece me lo porto nel lettone e poi mi sveglio col suo fiato che mi inumidisce il naso. Spesso e volentieri ho mal di schiena perché mi dorme sui reni, qualche volta lo faccio strisciare fin sotto il naso del Papi - che ovviamente russa come uno gnu - e lo abbandono così, a dieci cm da me, mi giro su un fianco e mi riaddormento. Al mattino lo ritrovo lì, appeso al mio lobo che mi fissa. Come una guardia del corpo mi sorveglia il sonno, non mi sveglia, si prende il tempo di studiarmi in silenzio e io apro gli occhi perché avverto nell'aria quel rumore tipico che fanno i ciucci quando vengono mordicchiati con passione.
E' lì che realizzo perché, con la nascita del Polpetta, Kevin Costner sia finito a pubblicizzare un tonno.

Fai la guardia alla mamma?
Lui in risposta mi stropiccia l'orecchio, sputa il ciuccio e sgancia uno di quei sorrisi che farebbero capitolare qualsiasi essere dotato di cuore e budella.

lunedì 16 giugno 2014

Da grande farò... il tronista!

Ti basta sapere il sesso di tuo figlio per tracciarne il futuro. Non sai neppure se sarà biondo, ma lo avrai già inscatolato dentro il suo completo Armani a firmare rogiti. Non ti è ancora stato detto se avrà dei lunghissimi dread a tenergli inclinata la testa, ma già la immagini campionessa di pattinaggio artistico. Non avrai ancora deciso il nome, ma in banca avrai già aperto un fondo universitario. Magari non lo dichiari pubblicamente, ma conservi sotto il maglione i pensieri più oscuri, con la smaniosa intenzione di pensarci ogni sera, di nascosto, mentre ti smangiucchi ben bene le unghie davanti alla replica di Uomini&Donne.
Io fino al quinto mese di gravidanza pensavo fosse femmina. La ginecologa aveva espresso una preferenza e mi ero lasciata irretire al pensiero di poterle infilare tra i capelli mollette fluorescenti, di passarle lo smalto sulle unghie almeno una volta al giorno, di comprarle dodici miniborsette di Hello Kitty. E se è vero che nella pancia ogni nostro pensiero viene trasmesso in filodifussione, mi viene da pensare a questo punto che, sul più bello, si sia fatta crescere il pisello di proposito.
Così, quando il Polpetta si è deciso a mostrare l'attrezzatura da montagna, sono sprofondata nello sconcerto. Tutti i miei progetti andavano in fumo.
Ricordo ancora bene però la prima, primissima cosa, che ci siamo detti io e il Papi mentre andavamo alla macchina: non farà il calciatore. Madre e padre convenivano che mai e poi mai il figlio in arrivo avrebbe dato un calcio al pallone! Una cosa non da poco. E badate bene che il Papi di calci al pallone ne ha dati tanti, ma forse proprio in virtù di questa sua overdose da fischi e cartellini, ha iniziato a negarsi questa opportunità attribuendo attenzioni smisurate ad altri sport quali rugby, tennis, pallacanestro, badminton, scacchi. Tutto quello che non aveva fatto in prima persona, ora si ripresentava come una meravigliosa opportunità.
Io invece, già dopo ventiquattr'ore, avevo scovato sei o sette modelli di jeans decisamente tamarri. A me poco importava dello sport, se proprio dovevo vederlo a San Siro era con una chitarra in mano. Solo l'idea di trovarmi a riesumare calzini da un borsone in grado di emanare lo stesso odore dei fiori del camposanto mi rendeva fortemente irrequieta. Il calcio era stato debellato, pensavo, e il mio cuore poteva tornare a battere serenamente.
E poi è arrivato il Polpetta. Uno che quando vede la palla non cammina, marcia! Uno che parte come un trattore e scaraventa altrove tutti gli oggetti di forma sferica che trova sul suo cammino. Uno che dorme con un pallone di cuoio nel lettino. Uno che davanti alla palla dice mamma e davanti alla mamma dice palla.
Così, io che mi ero illusa dicesse mamma al gatto perché padrone del verbo e del pensiero più sublime, mi accorgo che i figli non sono mai quello che vedi di notte, sotto il piumone, mentre ti smangiucchi ben bene le unghie, ma quelli che vedi di giorno, mentre giocano e si lasciano affascinare dalle scelte che nessuno ha programmato per loro. Mia madre dice "ci si abitua a tutto, anche ai figli" e credo che non esista saggezza maggiore. Io lo guardo e penso che potrebbe appassionarsi al tombolo, alla settimana enigmistica, all'ukulele, e so per certo che imparerei a fare la stessa cosa solo per poterlo seguire da vicino, per non dovermi allontanare troppo, per non vederlo scappare via. Ma anche qui, in realtà, realizzo molto bene che le distanze non sono programmabili, perché la felicità - quella vera - è sempre altrove. Anche perché poi può accadere che te lo ritrovi in televisione, a fare il tronista e, mentre lui - dimentico di avere mai avuto una madre che gli ha aperto un fondo universitario - si limona le trentadue corteggiatrici a sua disposizione, tu lo guardi e ricacci indietro tutti i programmi fatti, non ripensi a quel primo impulso materno, ma lo fissi sorridendo e ti dici che, sì, è proprio come lo avevi sempre desiderato.

venerdì 13 giugno 2014

L'evoluzione della borsetta: ventimila leghe di esistenza materna.

Io con la moda ho un rapporto difficile. Le borse enormi, profonde quanto un canyon si nutrono di tutti i miei ammennicoli più preziosi. Cerco le chiavi e non le trovo, del burrocacao non ho notizie da mesi, e per le forcine ho mandato avanti i cani molecolari. E’ che a un certo punto smetti di lottare con l’assorbente che, al bar, esce puntualmente assieme al portafoglio, e ti ritrovi a cercare cose a caso e la ricerca è talmente varia e di lunga durata che a un certo punto ti fermi, alzi la testa e ti rendi conto che hai dimenticato quale sia l’oggetto del desiderio. Non ricordi neppure dove siano finiti gli auricolari del telefono, anzi dubiti di averli mai avuti e decidi quindi di presentarti al negozio con la scatola di un vecchio nokia – perché è l’unica che sei riuscita a riesumare – lamentandoti di un qualcosa che in realtà ti serve solo da alibi. Al negozio, il commesso chiede gentilmente lo scontrino fiscale e lì, in quel momento di pathos senza precedenti, l’ombra del Polpetta riemerge dai taschini della vecchia borbonese. Con un sospiro, appoggio la borsa al bancone e inizio ad estrarre tutto quello che mi trovo tra le mani.
Un bavaglino che porta i segni delle rivoluzione francese. Due ciucci. Un calzino rosso. Un calzino verde. Un pannolino (pulito, tranquilli). Quattro confezioni di fazzoletti di carta raffiguranti un maiale dalle svariate dinamiche facciali. Tre biscotti plasmon fossilizzati, due sbriciolati, uno buono che mi infilo subito in bocca. Un cucchiaino di plastica. Un cucchiano di metallo. Il burrocacao avvolto da un pullover di polvere. Per ultimi gli auricolari. E proprio quando tiro con forza il filo, come dentro una rete per pesci, escono nell’ordine: tre penne, un peluche a forma di ape, sei forcine per capelli, una chiavetta usb e giurerei di aver visto scappare anche un cane, ma forse me lo sono immaginato.
Il commesso mi guarda, non sorride, non uno spasmo a dargli una parvenza di vitalità. Gli ho pure sporcato il bancone di briciole e scontrini accartocciati e fazzoletti mummificati. Dopo aver rimesso tutto dov’era, spingendo ben bene il contenuto verso il fondo, me ne torno a casa. Il Polpetta mi viene incontro - senza un calzino - prende la scatola del nokia  e inizia a rosicchiarne gli angoli, allora gliela tolgo di mano, lui si arrabbia. Prova ad afferrarla comunque! Io mi guardo attorno, non so cosa fare, cerco un posto in cui nasconderla. Niente, non c’è niente da fare. E’ più forte di me.
Me la infilo in borsa facendola scomparire per sempre.

mercoledì 11 giugno 2014

Belen e il mistero della farfallina tatuata

So che a voi non è capitato. E lo so perché guai a dirlo. Perché se una donna parla della sua patatina post travaglio poi Rocco Siffredi non ti si presenta più neppure in pubblicità, rimane a bordo monitor inorridito. Però sdoganiamo pure una questione così lugubre. E se ho deciso di farlo prima di affrontare temi come svezzamento, spannolinamento, stettamento o altro, è perché sono convinta che il valore di una donna si misura in molti campi e la capacità di reazione di un corpo femminile ha qualcosa di magico e immensamente bello. E perché un parto, qualsiasi esso sia, ti cambia dentro e fuori. E perché una donna è una donna e lo rimane anche dopo aver messo al mondo un figlio.
Io – coltivatrice diretta di un fusto che alla nascita pesava 4 kg e 330 grammi e che è venuto al mondo come un pallone da rugby schiantato tra le braccia del padre – nella prima dichiarazione rilasciata alla stampa ho sottolineato come mai e poi mai mi sarei avventurata oltre nella riproduzione umana. Perché dopo il parto si riparte da zero e si ricomincia anche nelle cose più scontate. Potrei quindi soffermarmi nel descrivervi la concentrazione che ho impiegato la prima volta che ho fatto pipì, o l’orrore che ho avvertito il giorno in cui l’infermiera dell’ospedale mi ha ordinato di scaricare l’intestino dichiarando che dovevo smetterla di fingere di non sapere di cosa stesse parlando, ma – tranquilli – non lo farò. Però sull’onda delle confidenze vorrei farvi immaginare in quanti modi sono riuscita ad ignorare il Papi tra le mura di casa. Un giorno credo di averlo persino annaffiato scambiandolo per il ficus beniamino di mia madre. E lui – amorevole come pochi – si è detto soddisfatto dichiarando che quel getto d’acqua era proprio ciò che desiderava da mesi.
Perché tra le varie sfighe che posso aver incontrato nel mio puerperio c’è stata pure la variante di doverlo condividere con una come Belen Rodriguez che, a un mese dal parto, dichiarava: io e mio marito lo abbiamo fatto subito. Ovviamente io, succube del suo fascino latino, mi sono così decisa ad affrontare il fidanzato con lo stesso entusiasmo con cui affrontavo il dentista, scoprendo così che quella di Belen è proprio una farfallina tatuata e che il piccolo Santiago in realtà le è stato recapitato da un corriere della Bartolini.


Può essere facile, come no. Ci si può sentire bene e ripartire subito, oppure può accadere – e accade – che a un certo punto si tema di non tornare più quelle di prima. E si può avere paura. Anzi, si deve avere paura. Perché la paura è indice di amore, amore verso se stesse e la paura deve essere un motore, non un freno. Qualcuno sarà più paziente, qualcuno sarà meno comprensivo, qualcuno ti dirà che il problema è nella testa, qualcuno diagnosticherà che il problema è fisico. Qualsiasi sia la questione, qualsiasi sia la risposta, il punto è che una risposta c’è sempre e va cercata. Perché il nostro corpo è una macchina magnifica che può ristabilire ogni connessione. Il nostro corpo è fatto per fiorire e sfiorire in continuazione. Non arenatevi quindi nel negare a voi stesse l’amore, ma cercatelo. Sempre. Perché una donna felice è una mamma felice e perché, è vero, non tornerete più quelle di prima, ma sarete mille volte meglio!

Outing 1.2

Credo che sbaglieró ogni giorno qualcosa, perché quando l'amore è tanto si sbaglia sempre in proporzione.

sabato 7 giugno 2014

Parole. Parole. Parole.



Lo guardi al mattino, quando si sveglia e ha già il ditino alzato perché sa già cosa chiedere. Ha i capelli infeltriti dalla notte, due punture di zanzara in mezzo alla fronte, una caccola secca che gli pende dal naso e pensi: "l'ho fatto proprio bello. gli manca solo la parola..."
Poi esci. Vai a fare la spesa. Incontri quella signora - che qualcuno deve aver imbalsamato davanti al bancone del pane - e che ogni sacrosanta volta lo avvicina tempestandolo di domande.
"mi dici ciao?"
"mi dai un bacino?"
"ti piace il pane?"
"non parli?"
"non sorridi?"
"sei arrabbiato?"
E' lì che il Polpetta inizia le manovre di allontanamento. Scivola fuori dal cappellino, ingoia tutto l'ossigeno del supermercato e urla! Una vocale, mica tutte, ovvio. Allora gli infilo il ciuccio. Lui mi guarda, si gira dall'altro lato e inizia a fissare con aria annoiata le uova sullo scaffale. La signora, che molto probabilmente si è spruzzata la lacca anche sui neuroni, mi guarda e ribadisce per l'ottantaduesima volta il concetto.
"Ma non parla?"
Io sorrido, prendo il pane e me ne vado.
Subito dopo incrocio alla cassa quella ragazza che prima era al pane e che si prende la briga di raccontarti di quel bambino, figlio dell'amica di un'amica di una lontana parente, che non parlava, no, e aveva una qualche bruttaroba e nessuno se ne era accorto! Che certe cose sembra impossibile accadano ancora! E poi - senza che tu riesca neppure a fiatare - ti rassicura pure dicendo che tuo figlio è ancora piccolo e poi è un maschio - e si sa (ricordiamocelo ancora una volta) - che i maschi sono lenti.
E' così quindi che una volta a casa, trainata da un indiscutibile impulso emotivo, mi avvicino, lo guardo mentre sgranocchia il suo tredicesimo biscottino e gli sussurro nell'orecchio "m-a-m-m-a". Lui mi guarda a stento, sputa un pezzo di biscottino, se lo spalma ben bene sulla maglia pulita e mugugna un "g-n-a-m".
Allora ci riprovo con l'altra metà del cielo "p-a-p-à" e lì neppure si gira, prende il biberon, se ne scola un terzo per poi sputarselo sul resto della maglia.
Quando la sera scendiamo a giocare nel piazzale di casa incontriamo il cane a cui si rivolge benevolo con un "ba-ba-ba". Subito dopo, in riva al fiume è un'anatra a tagliarci la strada e, sempre benevolo, la guarda e dice "ca-ca-ca". Attraversando la strada vediamo una macchina e gesticolando con la manina emette un lunghissimo "mmmhh". Ma è proprio quando torniamo a casa e siamo davanti alla porta che il gatto dei vicini ci viene incontro - e solo allora - con gli occhi a forma di cuore e il ditino alzato si inerpica dentro un confuso "m-a-m-m-a". Davanti al gatto. E lì sorrido, perché il Polpetta la sa talmente lunga che io neppure vedo la fine. 

Sarebbe forse comodo un manuale per monitorare la crescita di un figlio, ma non c'è. Per quanto in molti ci provino a vendertene una, non esiste una sequenza universale. Anzi - se posso darvi un consiglio - nei nove mesi di gravidanza stracciatevi gli occhi sopra a tutte le guide di questo mondo, ma quando partorite mettete via tutto. Cestinate i libri. Usate la connessione internet solo per monitorare i fidanzati della Canalis o i costumi da bagno della Belen. Godetevi l'improvvisazione di essere mamma! Perché c'è un tempo per tutto e non è necessariamente quello descritto dentro una tabella prestampata. E perché esistono molti istanti di una vita che, mescolati per bene in ordine sparso, generano una storia che non va letta, ma vissuta appassionatamente. Proprio perché unica ed irripetibile.

giovedì 5 giugno 2014

Il Polpetta testimonial della campagna: LIBERA TETTA in libero arbitrio!



Se c'è una cosa che mai avrei potuto prevedere è l'entusiasmo con cui le mie tette hanno accolto il Polpetta. Profondamente innamorata della mia scarsa seconda misura, ma soprattutto per nulla soggiogata dall'idea che l'allattamento al seno mi avrebbe resa più mamma, vagavo col mio pancione e acquistavo ostinatamente biberon di tutti i tipi. I racconti horror delle amiche - tra mastiti e ragadi multiple - mi scoraggiavano ancora prima di iniziare.
Poi il Polpetta è nato e in soli tre minuti ha afferrato il seno con le gengive e con la precisa intenzione di non mollarlo più! Il Papi mi chiamava la frisona d'alpeggio. Sparavo latte come un cowboy e colpivo chi incautamente mi si sedeva accanto. Mi dovevo cambiare ogni due ore e a volte mi vergognavo, altre volte ci ridevo su così tanto che il Polpetta finiva per bersi un frappè di ormoni e svagatezza.
Non vi sto qui ad ubriacare con la storia degli anticorpi presenti nel latte materno, perché francamente non ho le competenze per farlo. Posso però dirvi che il nano si è ammalato svariate volte. La scienza parla chiaro, ma l'esperienza poi fa sempre il suo corso e, insomma, il latte materno non rende bionici. Al massimo può rendere felici, ma anche qui non ci sono regole fisse.
Ora il pupo ha 15 mesi e ancora ciuccia e mentre ciuccia sorride. E chi me lo fa fare di togliergli il sorriso?
Cioè, cerchiamo di capirci. A me allattare non toglie tempo. Allatto al mattino e alla sera. Durante il giorno il Polpetta non fa gli assalti al fortino del latte, ma si lancia furiosamente dentro il sacchetto del pane. Forse non posso andare a ballare sui banconi dei bar tutte le sere, ma con un po' di organizzazione e, soprattutto con l'assistenza di amiche adorabili, riesco ad uscire, divertirmi, tornare, sparargli il latte in gola e andare a dormire col sorriso. Per me allattare non è il prolungamento dell'unione con mio figlio, non ho la necessità di dargli il seno per sentirmi mamma, continuo ad avere le stesse idee di indipendenza che avevo prima, ma - e questo è il punto - IO quando allatto mi rilasso. Accendo la tv, mi approprio del telecomando e nessuno mi può disturbare! Sono giustificata. E allora la Champion's League il Papi se la va a guardare in streaming. Non sono schiava, semmai sono libera!

Libera di allattare. Libera di smettere. Libera di fare, disfare, scegliere, sbagliare.
Perché non c'è una regola. Si può allattare a richiesta e poi accorgersi che si sta male, che non è facile, che arriva la febbre, che arrivano le ragadi, che arrivano le lacrime e allora decidere di smettere. Si può smettere! E proprio per questa scelta serena e indipendente sarai una madre bravissima! Una di quelle che non sbaglierà mai nulla per suo figlio. Oppure si può scegliere di allattare a richiesta, sentirsi bene, farlo e continuare a farlo e continuare ad essere serene, donando di conseguenza al proprio figlio pacchi di serenità.

Il Polpetta, assieme ad un nutrito gruppo di bimbi in fasce, è sceso in strada, batte sui tamburi col ciuccio e urla: a tutta tetta! A lui piace perché piace alla sua mamma, questo è il punto.

Segnalo il sito della Lega del Latte. A me è servito moltissimo.

martedì 3 giugno 2014

Italia-Germania 1-1






Un figlio genera confronti tra femmine esattamente come una partita di calcio genera confronti tra maschi. Con l'unica variante che i maschi - a loro modo - se la fanno passare, mentre le femmine si trasformano in serial killer. Io, appartenendo alla specie più pericolosa, non sono immune alla questione, però questa mattina, mentre scaricavo il Polpetta al parco giochi sono riuscita ad affrontare un conflitto culturale senza sentirmi in dovere di indossare la calzamaglia da Kill Bill.
Il fil di vento che batteva le lenzuola di casa mi ha indotta ad infilare berretto, felpa, e calzettoni al Polpetta che si è trovato così a pascolare come un samurai carico delle peggiori intenzioni.
Sull'altro lato del parco due occhi azzurri e un fascio di capelli biondo platino rotolavano scalzi tra un passo malmesso e una buca del terreno, mentre una giovane mamma altrettanto bionda se ne stava seduta tranquilla a blaterare segnali in un tedesco dall'insolita intonazione neomelodica.
Il Polpetta, invece, si avventurava tra i cavallini e gli scivoli colorati con il peso inopportuno di un'ombra che ogni due passi si raccomandava a tutte le madonnine del bosco: "vai piano! stai attento! guarda che cadi!"E lui, ubbidiente, ad ogni avviso cadeva.
La tedesca, dalla sua panchina, ci guardava. Seria.
E proprio quando il dubbio di una certa inadeguatezza materna iniziava a strisciarmi sotto la felpa dai dodici strati antivento, la giovane madre in canotta e sandaletti muoveva la sua prima stilettata.


"quanto ha?" (seduta)
"15 mesi" (correndo)
"oh! come il mio! Ferrrrdinand è nato il 20 febbraio." (seduta)
"oh! beh! no! il mio è nato quasi un mese dopo, CARA..." (correndo)

Perché quando sei in questo preciso periodo della "loro" vita, TU - madre, che contabilizzi ogni loro gesto dentro un registro foderato di seta - sai benissimo che in quattro settimane possono farsi crescere tre denti, emettere dodici suoni diversi (indecifrabili ma bellinidamorire), camminare, strisciare come un vietcong, imparare a scardinare la wii, scaricarti il cellulare, scaccolare se stessi, il padre e il vicino di casa, sgusciare fuori dal passeggino, aprire gli armadi, nascondersi nei cassetti... quindi chi osa dire che sono "uguali" MENTE! E, al tuo cuore spugnoso, risulterà solo un essere MESCHINO!

In realtà i due nani di diverso avevano ben poche cose, a far la differenza era la femmina che si tiravano appresso. C'è da dire, per discolpar me stessa, che la biondissima in questione ha mostrato il primogenito, tale Guenther, solo dopo qualche minuto e questo mi ha sollevata da ogni forma di melodramma esistenziale. Perché se al primo figlio misuri il brodo in ml, al secondogenito riusciresti a far mangiare una scaloppina di cartone.

E questo a casa mia si chiama fuorigioco.
Al transitar dei due pargoli sui loro mezzi a tre ruote, i piccoli ominidi si sono scambiati la bava in una convincente strisciata di mano. Perché, pur con un mese di differenza, entrambi erano già in grado di ignorare la femmina che - tenera - pascolava al loro fianco.
Corner. Calcio. Gol.

lunedì 2 giugno 2014

Il Polpetta: parafrasando Baglioni

C'è che c'aveva ragione Baglioni: le cose le impari strada facendo e non a sentirtele raccomandare dai benpensanti, che alla fine manco ascolti perché ti urtano i sensori dell'ego. Infatti io, che per far prima, lasciavo il sacco dei rifiuti a terra vicino alla porta, ho capito che non s'ha da fare. Ma l'ho capito oggi quando ho trovato il Polpetta che, come un gatto randagio, spargeva rifiuti ovunque odorando con aria assai eccitata l'incarto del kitkat.
Perché per il Polpetta la vita è adesso, non domani - o chissà - e a me non resta che stargli dietro. I tempi ora li detta lui, e vaglielo a spiegare al Papi che non si può più programmare le uscite con due giorni di anticipo. Lui così preciso e puntuale, io così scapestrata, e ora così sollevata dalle colpe, perché un bambino poi in certe cose ti fa pure da alibi. Ti aiuta a scrollarti di dosso le opinioni degli altri. E le critiche da fosso invalicabile diventano pozzanghere, e te ne fotti. Ci infili pure dentro i piedi, perché ti accorgi che le scarpe sono fatte per camminare e non per stare in vetrina, sotto gli occhi ammirati dei passanti. E così sono i giorni che arrivano e che subito scappano via. E te lo ritrovi già un po' grande. Non è più il bimbo calvo tutto gengive, ma ha il suo primopelo spettinato e otto denti pronti a rastrellare tutto quello che entra nel suo campo visivo. Ora ti ride in faccia, ti indica che lì non ci vuole più stare. Urla che lì non ci vuole più stare! Non ti sta più in una mano. Non ti si addormenta più attaccato al seno. Non sei più la sua prolunga di vita, ma prende e va e alle volte pensi che possa persino dimenticarsi di te. E poi però, proprio quando ha raggiunto la soglia si gira, ti guarda, vede che non lo segui, vede che sei rimasta quei dieci passi indietro e allora si ferma, riguarda la porta, si gira un'altra volta e scoppia a piangere. E tu, che già lo avevi visto fuggire sotto una coltre di brufoli, sospiri sollevata e quasi piangi con lui mentre te lo riprendi in braccio e mediti di ingoiartelo con tutte le scarpe, per rimetterlo dov'era e rivivere tutto daccapo. Senza pudore. Dal primo ai mille giorni che verranno dopo. 

domenica 1 giugno 2014

Outing 1.1

"Non lo prendo in braccio, perché dopo si abitua".
"Non dorme più in camera mia, perché dopo si abitua".
"Non lo allatto più al seno, perché dopo si abitua".
"Non lo addormento più io, perché dopo si abitua".

E poi hanno un cane che chiamano "amore".