martedì 28 marzo 2017

Giornalismo 2.0



C’è una cosa che mi fa vomitare più delle uova sode ed è il giornalismo mediocre. Quando inciampo in quello trentino i conati si sommano ai singhiozzi e non so quale delle due cose mi si incunea con maggior dolore dentro al corpo. E c'è un giornalismo trentino, piuttosto recente (che a dire nuovo mi pare quasi di bestemmiare) che stamattina è riuscito a recuperare il caffè con cui mi ero diligentemente sfamata per farlo decollare dentro al lavello della cucina.

L'ostinazione della notizia è a dir poco inquietante, già lo sapevo, ma quando la notizia si fa succulenta i cannibali iniziano a ballare, il pentolone fuma e i commensali arrivano. Tutti in fila, come pecore senza testa. Che per sfamarsi con una decina di like si fanno follie e la bocca non serve mica, così come non servono gli occhi e il cervello per ingoiare subdoli dettagli che trasformano la notizia in poltiglia.

Di un uomo che ha ucciso i suoi figli si dicono cose - cose - e se lo si fa in casa propria, nulla da eccepire, ognuno è libero di pensare e di dirselo, pure, cosa gli fa paura e di interrogarsi, anche, sul delirio del mondo. Scriverne invece è un atto di rispetto che va a stabilire un confine netto tra l'informazione utile e il narcisismo inutile. E scrivere con una puntualità forsennata, quasi al limite dell'isterismo, mi pare uno di quegli atteggiamenti tipici di chi solitamente non ha un cazzo da dire e allora, quando viene messo nella condizione di poterlo fare, protrae l'orgasmo del verbo, fino al punto di non ritorno, e ne usa e abusa fino ad azzerare qualsiasi stato di scarsamente proficua umanità.

Aggiornamenti costanti, questa è la predilezione di certe testate che lavorano online, testate che si sentono in grado di precisare, ogni ventisei secondi netti, cosa sta accadendo sul territorio e lo fanno con una modalità che somiglia tanto al vociare di certi tinelli dove si mangiano patatine molli e si beve vino aspro. E fanno bene questi individui che scrivono con ostinazione, sia chiaro, a farlo con la stessa foga dello spaccalegna che si limona l'ascia e il bosco intero, perché siamo noi i destinatari di questa folle destrutturazione umana. Siamo noi la massa di beoti che legge e cerca notizie di cui ritiene necessario ciucciare l’osso, e siamo noi quelli posseduti - tutti - da una becera curiosità, così pruriginosa, che è limitata solo dalla batteria dell'iPhone. E ci si rattrista tutti, sì, e ci si lascia frantumare il cuore, sì, quando lo smartphone ci muore in mano. Quella è una morte per cui siamo in grado di provare dell'autentico dolore, solo e unicamente quella.

Perché, voglio dire, è utile intervistare la commessa che vende i biscotti casalinghi nel benemerito quartiere delle Albere e riportare la paura che la povera donna aveva dello sguardo da lupo - a suo dire - dell'assassino. Perché è importante saperlo che, quell'uomo lì, aveva una faccia che metteva paura alla signora che vende i biscotti casalinghi al quartiere delle Albere, è importante, se ne deducono di cose fondamentali da un'affermazione così puntuale e precisa. Ed è altrettanto importante dire che i figli, l'assassino, li ha ammazzati nel soggiorno di un lussuoso appartamento del quartiere progettato da Renzo Piano e che poi è andato a togliersi di mezzo sgasando sul suo altrettanto lussuoso Suv marchiato Volvo. Questi sono dettagli fondamentali per il lettore. E il tutto - il tutto - condito da una costante presa sulla notizia e da cocciuti quanto insani aggiornamenti sul web.

A una sola persona ho pensato mentre leggevo tutto quello che i giornalisti avevano da aggiungere, una sola, e me la sono immaginata sorridente, disinformata, bella di una bellezza che solo il procinto di una storia che brama di fiorire ti può dare. Un’adolescente che respira, cammina, sorride, un’adolescente che ha tutta la vita davanti. Ho pensato a quella figlia, sorella, che il telefono ce l'aveva in mano, ho idealizzato la sua imminente possibilità di guardarci dentro, di consultare un social network, un'informazione, una curiosità, ho costatato il fatto che a dilaniarle il corpo e la mente non sarebbe stata solo la bomba a mano lanciata da un demone di cui non si conosce il nome, ma le mille altre reinnescate più e più volte da tutti noi. Perché siamo un popolo che balla sui morti, siamo un popolo che mangia cadaveri, siamo un popolo che ha una squisita predilezione per i giudizi, le condanne, i misteri. Siamo un popolo che non conosce e non sa darsi pace. Ma siamo, soprattutto, un popolo che non sa stare zitto, che non sa comprendere e rispettare il dolore di chi rimane.


E ho usato il plurale certo, ho ghigliottinato la mia testa per prima, ho affondato su me stessa l'orrore di un'epoca che ci rappresenta tutti, per intero. La funzione di un giornalismo, se mai dovesse essercene una, non è quella di spingere magistralmente l'informazione verso la non-verità di una coscienza e neppure vendere oppio a un popolo che di lucido, ormai, mantiene solo le scarpe. La funzione del giornalismo è quella di combattere la disinformazione, parte anch'essa di un'ignoranza destinata fatalmente a imporsi sempre e comunque. La funzione del giornalismo, quando è fatto bene, è anche quella di venderti una pagina bianca, un signorile silenzio in grado di rispettare il futuro che crolla - e continua tristemente a crollare - dentro a un presente che non ha proprio più un beato cazzo da dire.