venerdì 29 agosto 2014

Cucciolandia e i suoi abitanti #iostocondaniza

In fatto di hobbistica a casa ce la giochiamo bene. Io ho i miei bei pruriti creativi, che intasano ogni angolo spoglio, e il Papi ha le sue turbe esistenziali, che lo inducono a fuggire su per i boschi un giorno sì e un giorno anche. Che le due cose siano legate non è cosa da definire ora.

Dai suoi boschi arrivano i filmati che gira e questo è fresco di qualche giorno fa.
No, non è Daniza. E' un'altra mamma.

Qui trovate la meravigliosa passeggiata di una mamma col suo cucciolo.

Pochi secondi di loro. Pochi secondi di noi.


#iostocondaniza

mercoledì 27 agosto 2014

dedicato ai bambini del mio cuore (e non solo)

E' difficile fare le cose difficili, parlare al sordo, mostrare la rosa al cieco.
Bambini imparate a fare le cose difficili, dare la mano al cieco, cantare per il sordo, liberare gli schiavi che si credono liberi.

Gianni Rodari


Oggi sono sintetica, e forse anche un po' triste. Con me sintesi e tristezza vanno di pari passo. E allora ripenso alla mia infanzia, mi immalinconisco un po' e poi però rivedo le pagine di Rodari, il suo sogno dentro ai miei occhi e penso che tutto può fiorire e ci voglio credere ancora, ora come allora.

Perché l'infanzia è un luogo sacro dove tutto può fiorire. Dove tutto deve poter fiorire.


sabato 23 agosto 2014

Imum, Iwork, Istanc. Le migliori app di un cervello da mamma.

C’è chi decide di rientrare al lavoro per poter dare (e fare) di più e chi invece non vorrebbe farlo e si ripete, con le preghierine della sera, “la prossima vita rinasco ricca e magra”.
E così dopo mesi di assenza lavorativa ti ritrovi a varcare la soglia dell’ufficio e scopri che ti occuperai della potatura delle felci, e non reagirai perché sarai ancora obnubilata dall'odore di tuo figlio, e lo immaginerai angosciato che piange appeso al vetrata dell'asilo e i tuoi riflessi saranno rallentati al punto giusto, il tuo cervello si sentirà in debito e accetterai di buon grado ogni compito assegnato. Ci sarà poi - dopo qualche giorno di permanenza - la madre che diserberà le felci e invocherà tutte le forze terrene per riavere indietro i suoi preziosissimi ventisei faldoni a righine blu e la madre che invece imparerà ad amare ogni fogliolina messa a sua disposizione, perché il bonifico a fine mese le risulterà un'ottima motivazione per collaborare alla fotosintesi clorofilliana di quei poco loquaci vasi in rattan.
In entrambi i casi la mamma tornerà a casa con un solo scopo: accocolarsi sotto il naso del suo piccolo uomo, contarne le caccole, accertarsi che tutto sia in ordine, e dimenticarsi rapidamente di ogni qualsivoglia dinamica lavorativa.
Le priorità improvvisamente cambieranno e smisterai ogni problema come dentro ad una sfida a shangai. Sfilerai dal mazzo le perturbazioni mentali della collega prossima alla menopausa con una leggerezza che prima non ti saresti minimamente permessa di adottare. Grazie a questo meccanismo di scarto che, allargando il suo campo di azione smercia la metà delle cose che prima inutilmente ti angosciavano, riuscirai ad avviare una lavatrice, ringraziare madama Peppa Pig che ipnotizzerà tuo figlio mentre gli infilerai in bocca 250 gr di passato di verdure, passarti la pinzetta sulle sopracciglia, postare una foto su facebook, stirare due camicie e sbattere in aria otto magliette fingendo di averle stirate... nella convinzione più ferrea di aver steso così bene da non doverle neppure piegare. E così le lascerai lì, sulla sedia, in attesa di essere direttamente indossate.
Il cervello ti scaricherà gli aggiornamenti in automatico, anche quando ti sembrerà di essere così stanca da non poterti neppure spogliare e ti addormenterai così, con gli stessi pantaloni con cui sei andata al lavoro e la mattina ne gioirai perché il tempo risparmiato per vestirti sarà tutto dedicato all'eyeliner che da mesi bramavi di poter riutilizzare.
Questo è un ovvio autogol, ora quelle rare volte che mi vedrete truccata come un'opera di Gauguin, guarderete i miei pantaloni e vi chiederete se sono il refuso di una notte passata a dormire all'addiaccio e vi salirà il pensiero che forse quella della mamma è un'esistenza difficile, a tratti impossibile. Eppure devo smentirvi.
Ci sono giorni, settimane addirittura, in cui la stanchezza sembra un guerriero ninja che mi insegue per colpirmi insistentemente alle tibie. Giorni in cui i problemi si fanno più complessi e i sospiri prendono il posto dei respiri. Giorni in cui vorrei premere un tasto - uno qualsiasi - per spegnere tutto e riavviare il sistema. E poi però ci sono notti in cui mi alzo, senza che nessuno mi abbia chiamato, vado in bagno, faccio pipì e, mentre torno a letto, mi affaccio alla sua camera, lo guardo che dorme scoperto, con un piede in verticale, il ciuccio infilato in un occhio e la piega del cuscino tatuata sulla guancia e , ricomincio a respirare, come si deve, come il ritmo del suo cuore mi detta nel silenzio perfetto della notte.
Perché ora le regole le dettano loro e questa, forse, è la nostra più grande fortuna.

martedì 19 agosto 2014

Io sto con Daniza. Perché essere mamma non è un reato. #iostocondaniza


Vivo tra i monti, i funghi li guardo come guardo i fiori, posso quindi capire chi naviga tra i boschi come una barchetta in mare aperto. Capisco anche chi ci vive nei boschi, o almeno provo ad allargare il mio campo visivo e a mettermi a fissare ogni spazio, senza morbosità, ma con quel piglio curioso che hanno i cuccioli. Chiudo gli occhi.
Ok. Ci sono.
Mi volto, e vedo la mia mamma, imponente come una nave e mi sento bene, annuso l'aria e lei è lì con me. Sempre. Questo penso, da cucciolo d'orso. Non penso che da grande dovrò percorrere chilometri in solitaria, non considero il fatto che poi la mamma si allontanerà lasciandomi pronto ad affrontare la vita. Non penso che gli uomini mi vedono come qualcosa da avvicinare, o da allontanare. Gli uomini. Quelli grandi.
Forse se incontrassi un bambino lo annuserei e forse anche lui mi annuserebbe. Perché tra cuccioli è così. Gli uomini. Quelli piccoli.

Io sto con Daniza, perché se la incontrassi lungo i sentieri di un bosco me la darei a gambe levate, pur sapendo che è consigliabile stare fermi. Perché forse pure lei, se vedesse come vado in giro conciata, scapperebbe su per il pendio opposto. Perché dovremmo tutti toglierci di dosso quella bella piega fatta col phon e vivere più a fondo il nostro essere un po' selvatici, arruffati, primari in tutto. E' lì che la vita prude, dove ci si allontana da tutto, dalle regole, dall'educazione, dalle decisioni ferree, dalle curiosità morbose. E' lì che Daniza vive, in quel punto preciso in cui la vita pulsa. E io tifo per lei, perché anche lei è stata colpita dalla mammamorfosi, perché anche lei per i suoi cuccioli darebbe la vita e perché il Polpetta con il suo orso ci va a nanna e per il suo orso graffierebbe il naso a qualsiasi essere umano. Perché gli animali sono come i bambini, difendono ciò che sentono proprio e lo fanno a qualsiasi costo e forse questa è la prima regola della vita, quella che ci sfugge e di cui troppo spesso ci dimentichiamo in nome delle buone maniere.
E io che sono una cialtrona, una maleducata, una che se ne fotte delle regole, una che vive, posso dirlo un'altra volta ancora: #iostocondaniza

venerdì 15 agosto 2014

Voce del verbo s-mammare

Quando penso a com'ero nell'a.p. (avanti polpetta) mi lascio affascinare dai ricordi della leggerezza. Quel non dover pensare a niente e, per contro, quel doversi tenere per forza occupati. Forse perché la noia si porta sempre appresso una processione di pensieri. Forse perché a vent'anni c'è l'urgenza di vivere tutto. Subito. Come se non ci fosse altro tempo, altra possibilità, altra scelta.
E poi magari arriva un bambino - e per una donna il margine temporale della procreazione è sempre ben definito - e ciò che prima riuscivi ad infilare tra un aperitivo e due ore di palestra, poi si perde nel buio del caos esistenziale.

Il bambino nasce e il papà lavora e quando torna a casa è stanco e quindi se una sera decide di uscire, esce. Lavora. Fatica. Deve sgranchirsi il cervello.
Il bambino nasce e la mamma è a casa, che allatta, e cucina, e si lima le unghie (sempre che nel frattempo non non le abbia ingoiate con le falangi) e quindi se una sera decide di uscire, non esce. Allatta. Fa la mamma. Il suo cervello può infeltrire lentamente, anzi, c'è chi ha l'ardire di pensare che non ne possieda neppure uno.
Una mamma alla sera si arrampica come un herpes dentro la coperta di pile e si ripromette di prendersi del tempo per se stessa, il giorno dopo. Sempre il giorno dopo. Qualche volta si sveglia con la testa che pesa e, come se stesse smaltendo una pesantissima sbornia, si guarda allo specchio cercando nei ricordi della notte passata qualche uscita scapestrata, qualche dinamica eccitante, ma niente, solo ninne e nanne dai mille colori e un marito che dorme generosamente perché, a suo dire, neanche con un buon amplifon riuscirebbe a sentire la filodiffusione del filiale pianto notturno.
Eppure lo spazio materno è quello spazio bianco che ogni donna dovrebbe sparecchiare per ridare aria al cervello.
Perché se una mamma abbandona il pargolo per una seduta di shopping, una passeggiata in montagna, due ore di pittura, non è una sciagurata. Perché una mamma ce l'ha un cervello da sgranchire. Perché essere mamma è un lavoro. E perché una donna che dipinge è una donna che dipinge, se poi è una mamma è una mamma che dipinge, non è una donna che non fa la mamma.
Spesso l'equazione si sfilaccia durante lo svolgimento e quindi è meglio parlarne.
Già. Già.
In questi mesi ho conosciuto donne appassionate, donne che pur lavorando dietro la cassa di un supermercato, nutrivano nel proprio caos esistenziale l'opportuna necessità di sparecchiare il proprio destino. Madri, tutte madri, che allattavano progettando un nuovo braccialetto da annodare, un nuovo sentiero da esplorare, una nuova tela da sporcare.
Io, per mesi, ho lasciato il cervello parcheggiato in garage, e il mio era un garage sotterraneo, un antro buio e pieno di echi oscuri. Credevo di non potermi concedere più il lusso di scorrazzare libera dentro a un foglio bianco, senza mio figlio accanto. Quel senza mi incuteva paura, a tratti stanava pure un'ombra di vergogna. Per mesi mi è parso impossibile potermi allontanare da lui, poi un giorno mia madre mi ha cacciata di casa, si è presa mio figlio, ordinandomi di s-mammare (mai verbo cadde con più naturalezza dentro alla mia storia). Sono stata via trentadue minuti, non un secondo di più, e quando sono tornata ho trovato il Polpetta che, felice, si ciucciava il piedino. E poi sono arrivata qui. Su questo spazio bianco a gesticolare un po' sui fatti miei pensando di parlare a due anime - che invece non sono proprio due - e a spaccare noci con la fronte per tenere sveglio un cervello che pensa, soffre, sbaglia e ancora però si appassiona pesantemente alla vita. Perché l'urgenza di quei vent'anni mi prude ancora sotto ai piedi e si ostina a voler consumare tutto - proprio come allora - subito. Immediatamente. Come se non ci fosse un domani. Il mio domani.

giovedì 7 agosto 2014

A 1 passo dal Noi.


Spesso, durante i nove mesi di attesa, ho pensato che l'utero fosse ubicato esattamente dietro la corteccia cerebrale. Ogni pensiero, ogni azione, ogni riflesso, partiva seguendo il medesimo rito. Mi stiracchiavo i reni. Mi stropicciavo gli occhi. Mi accarezzavo la pancia. Magari di nascosto, sotto la scrivania, giusto perché non si notasse troppo quello stato di materna dolcezza che mi prudeva sotto l'ombelico. A tratti mi infastidivo, cercavo di sembrare uguale a prima, mi infilavo gli stessi jeans a vita bassa, scivolavo dentro a gigantesche maglie oversize, e scansavo quelli che mi volevano toccare la pancia. Io mica ero abituata a sentirmi così priva di spigoli, così rotonda.
Il test di gravidanza sfilato dal borsone da tennis e mostrato all'amica in mezzo ad un parcheggio vuoto, la domanda: dici che è sbagliato? dici che non funziona?, e l'amica che risponde - cauta - con un abbraccio stritolaossa. E poi la nausea, la sciatica, il reflusso gastrico, l'insonnia, le partite notturne a ruzzle, il raffreddore mortale, l'omeopatia fallibile, il bagno nella vasca con la pancia che fuoriesce dall'acqua, con la pancia che si riempie d'acqua. E il nono mese, quello del calendario che ogni mattina cancella un giorno all'attesa, quello dei sussulti inutili, quello dei dolorini strani, quello del "ci penso ma anche no", quello delle ultime fotografie al pancione, quello delle attenzioni paterne, quello della paura segreta.
Ho sempre pensato di non essere predisposta all'attesa. Aspettare era un verbo che non consideravo. Le perdite di tempo le scansavo e ciò che non generava un moto fisico era percepito dal mio corpo come un fastidio. In realtà i nove mesi di attesa sono stati l'attesa più dinamica a cui ho dovuto partecipare. E sono serviti tutti al mio cervello per decriptare quella nuova presenza. Tra me e il Polpetta c'era una membrana di vuoto cerebrale che non riuscivo a riempire a sufficienza. Non capivo quale tipo di madre sarei stata e, a dirla tutta, non lo so neppure ora.
Quando mi dicevano "vedrai, poi ti mancherà il pancione" assumevo la postura da film western e imbracciavo il fucile, niente mi sembrava più assurdo di un'affermazione nostalgica. In realtà qualcosa accade - non subito, non nell'immediato - il cervello lancia l'antivirus e rimuove l'inutile senza cancellare i ricordi. E così ti ritrovi poi a guardare un'altra parentesi materna, a sospirare (di nascosto) dentro a uno sbadiglio, a cercarti l'ombelico (di nascosto) sotto la scrivania e a ripensare che quella curva così priva di spigoli, così rotonda e perfetta possiede in realtà il fascino che solo le grandi attese svelano a un passo dallo stupore, a un passo dalla rivoluzione, a un passo dal noi.

venerdì 1 agosto 2014

Piove, piove, la gatta non si muove.

Ho atteso qualche settimana prima di dedicarmi a questo post. Monitoravo facebook, guardavo le foto di spiagge assolate e piedi abbronzati e manzi stretti dentro opportunissimi costumini fluo e, come la vecchia strega di Biancaneva lustravo la mia bella mela rossa gracchiando: tornereteee! oh, se tornereteee!
Ecco. Ora che a quelli tornati si è spenta l'abbronzatura e che a quelli in partenza spetterà il mio stesso cielo incontinente posso sentirmi pronta nel condividere la mia claustrofobica clausura materna.
Piove. Su tutta Italia, o quasi, ma di quel quasi non mi voglio neppure interessare perché ciò che non può essere mio è fonte di perturbazione psicologica. Guardo mio figlio con la pelle candida da Edward Cullen che sbava e si contorce per l'arrivo dei canini e temo, temo che questo lungo inverno mi stia solo preparando all'arrivo dei Volturi. Controllo le mie occhiaie allo specchio e mi dico che non c'è un sonno adeguato a questa stanchezza, che l'unico riposo che al mio corpo permetterebbe di assorbire tutto questo caos estetico sarebbero dodici giorni di sole che, puro, si spalma come nutella su ogni cm del mio corpo. La buccia d'arancia ha lasciato il posto alla pelle d'oca e, francamente, non so cosa sia peggio.
Il problema però è un altro. Il Polpetta è alla finestra, appeso al vetro con le sue diaboliche manine a ventosa. Invoca il parco giochi mentre fuori piove e piove e piove. Lo stacco, lo riporto sul suo tappettino colorato e dico per la centoventiquattresima volta "giochiamo!", lui mi guarda con aria incerta, si pigia gli occhi per strizzarci fuori due lacrime in più e aspetta. Io lo guardo e improvviso, ma l'entusiasmo nel frattempo ha ceduto il passo alla stanchezza e risulto allettante quanto una pizza congelata. Il libretto! Ecco, leggiamo il libretto! I cubetti! Ecco, facciamo una torre con i cubetti! Gli animaletti! La pallina! I cerchietti colorati! Il secchiello! Il cavallino! La macchinina! Le padelline! L'orsetto! Il martello! La televisione!
Tutto. Fatto tutto. E fuori piove. Ancora.
La sera arriva e striscio dentro al letto come un viet cong. E risparmiatemi i suggerimenti indigesti di chi conosce ottantatue metodi didattici per tenerli adeguatamente occupati, il Polpetta ha sedici mesi ed è in quell'età dove esplora e conosce e nell'esplorare e nel conoscere riesce ad infilarsi in ogni anfratto, e se trova qualcosa, prima lo guarda e poi lo ciuccia mentre medita se ingoiarlo o meno. Certo, la casa è sicura come il caveau di una banca svizzera, pertanto niente è a portata di bambino. I mobili sono chiusi con la catena della bici, i giochi sono calibrati alla sua età, tutto è a sua immagine e somiglianza. Tutto.
Ma i bambini sono esseri superiori. Il Polpetta da giorni studiava silenziosamente la mia borsetta appoggiata sul davanzale della finestra. La guardava e non chiedeva, non indicava. Oggi improvvisamente si è alzato e con passo da calzino peloso è andato fin sotto il davanzale. Il Polpetta è un sedici mesi taglia XXL e pertanto è molto alto, ha allungato la mano, si è tirato in braccio la borsetta, ha infilato un ditino nel minuscolo spazio ad inizio cerniera e ha scoperto che per aprirla bastava far strisciare con forza la manina. Ecco. Io, che stavo facendo pipì, ho avvertito nel silenzio di casa un misterioso alone di paura. Allungando il collo oltre il bidet ho visto riflessa nello specchio l'operazione del piccolo ladro e ne sono rimasta affascinata. Soddisfatto ha dato una leccatina al mio cellulare, ha stracciato con aria divertita dieci nuovissimi fazzoletti di carta e si è messo a blaterale in cambogiano quando ha trovato le chiavi di casa.
Mi lascio quindi questo orrido lugliembre alle spalle meditando sulla clausura materna. Il marito che torna quando si fa sera e ti dice che sei fortunata a stare a casa con vostro figlio, che lui invece al lavoro ha incontrato una svariata quantità di idioti e che pagherebbe per fare a cambio. Tu gli dedichi sei secondi netti di attenzione in cui lo vedi aprire la velux, issarsi sul tetto e dire in fretta al bambino "esco a prendere le sigarette. torno subito!". 
La quotidianità è un puzzle di meraviglie e fatiche che si incastrano alla perfezione.

E' uscito un raggio di sole, la mia pupilla si è stropicciata di fastidio e il Polpetta, davanti alla finestra, ha iniziato a brillare come un piccolo swarovski. Me lo carico in spalla e corro al parco giochi, mentre aspetto l'arrivo dei Volturi.

E comunque - per la cronaca - non trovo più cinquanta euro. Per dire.