venerdì 15 agosto 2014

Voce del verbo s-mammare

Quando penso a com'ero nell'a.p. (avanti polpetta) mi lascio affascinare dai ricordi della leggerezza. Quel non dover pensare a niente e, per contro, quel doversi tenere per forza occupati. Forse perché la noia si porta sempre appresso una processione di pensieri. Forse perché a vent'anni c'è l'urgenza di vivere tutto. Subito. Come se non ci fosse altro tempo, altra possibilità, altra scelta.
E poi magari arriva un bambino - e per una donna il margine temporale della procreazione è sempre ben definito - e ciò che prima riuscivi ad infilare tra un aperitivo e due ore di palestra, poi si perde nel buio del caos esistenziale.

Il bambino nasce e il papà lavora e quando torna a casa è stanco e quindi se una sera decide di uscire, esce. Lavora. Fatica. Deve sgranchirsi il cervello.
Il bambino nasce e la mamma è a casa, che allatta, e cucina, e si lima le unghie (sempre che nel frattempo non non le abbia ingoiate con le falangi) e quindi se una sera decide di uscire, non esce. Allatta. Fa la mamma. Il suo cervello può infeltrire lentamente, anzi, c'è chi ha l'ardire di pensare che non ne possieda neppure uno.
Una mamma alla sera si arrampica come un herpes dentro la coperta di pile e si ripromette di prendersi del tempo per se stessa, il giorno dopo. Sempre il giorno dopo. Qualche volta si sveglia con la testa che pesa e, come se stesse smaltendo una pesantissima sbornia, si guarda allo specchio cercando nei ricordi della notte passata qualche uscita scapestrata, qualche dinamica eccitante, ma niente, solo ninne e nanne dai mille colori e un marito che dorme generosamente perché, a suo dire, neanche con un buon amplifon riuscirebbe a sentire la filodiffusione del filiale pianto notturno.
Eppure lo spazio materno è quello spazio bianco che ogni donna dovrebbe sparecchiare per ridare aria al cervello.
Perché se una mamma abbandona il pargolo per una seduta di shopping, una passeggiata in montagna, due ore di pittura, non è una sciagurata. Perché una mamma ce l'ha un cervello da sgranchire. Perché essere mamma è un lavoro. E perché una donna che dipinge è una donna che dipinge, se poi è una mamma è una mamma che dipinge, non è una donna che non fa la mamma.
Spesso l'equazione si sfilaccia durante lo svolgimento e quindi è meglio parlarne.
Già. Già.
In questi mesi ho conosciuto donne appassionate, donne che pur lavorando dietro la cassa di un supermercato, nutrivano nel proprio caos esistenziale l'opportuna necessità di sparecchiare il proprio destino. Madri, tutte madri, che allattavano progettando un nuovo braccialetto da annodare, un nuovo sentiero da esplorare, una nuova tela da sporcare.
Io, per mesi, ho lasciato il cervello parcheggiato in garage, e il mio era un garage sotterraneo, un antro buio e pieno di echi oscuri. Credevo di non potermi concedere più il lusso di scorrazzare libera dentro a un foglio bianco, senza mio figlio accanto. Quel senza mi incuteva paura, a tratti stanava pure un'ombra di vergogna. Per mesi mi è parso impossibile potermi allontanare da lui, poi un giorno mia madre mi ha cacciata di casa, si è presa mio figlio, ordinandomi di s-mammare (mai verbo cadde con più naturalezza dentro alla mia storia). Sono stata via trentadue minuti, non un secondo di più, e quando sono tornata ho trovato il Polpetta che, felice, si ciucciava il piedino. E poi sono arrivata qui. Su questo spazio bianco a gesticolare un po' sui fatti miei pensando di parlare a due anime - che invece non sono proprio due - e a spaccare noci con la fronte per tenere sveglio un cervello che pensa, soffre, sbaglia e ancora però si appassiona pesantemente alla vita. Perché l'urgenza di quei vent'anni mi prude ancora sotto ai piedi e si ostina a voler consumare tutto - proprio come allora - subito. Immediatamente. Come se non ci fosse un domani. Il mio domani.

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