giovedì 7 agosto 2014

A 1 passo dal Noi.


Spesso, durante i nove mesi di attesa, ho pensato che l'utero fosse ubicato esattamente dietro la corteccia cerebrale. Ogni pensiero, ogni azione, ogni riflesso, partiva seguendo il medesimo rito. Mi stiracchiavo i reni. Mi stropicciavo gli occhi. Mi accarezzavo la pancia. Magari di nascosto, sotto la scrivania, giusto perché non si notasse troppo quello stato di materna dolcezza che mi prudeva sotto l'ombelico. A tratti mi infastidivo, cercavo di sembrare uguale a prima, mi infilavo gli stessi jeans a vita bassa, scivolavo dentro a gigantesche maglie oversize, e scansavo quelli che mi volevano toccare la pancia. Io mica ero abituata a sentirmi così priva di spigoli, così rotonda.
Il test di gravidanza sfilato dal borsone da tennis e mostrato all'amica in mezzo ad un parcheggio vuoto, la domanda: dici che è sbagliato? dici che non funziona?, e l'amica che risponde - cauta - con un abbraccio stritolaossa. E poi la nausea, la sciatica, il reflusso gastrico, l'insonnia, le partite notturne a ruzzle, il raffreddore mortale, l'omeopatia fallibile, il bagno nella vasca con la pancia che fuoriesce dall'acqua, con la pancia che si riempie d'acqua. E il nono mese, quello del calendario che ogni mattina cancella un giorno all'attesa, quello dei sussulti inutili, quello dei dolorini strani, quello del "ci penso ma anche no", quello delle ultime fotografie al pancione, quello delle attenzioni paterne, quello della paura segreta.
Ho sempre pensato di non essere predisposta all'attesa. Aspettare era un verbo che non consideravo. Le perdite di tempo le scansavo e ciò che non generava un moto fisico era percepito dal mio corpo come un fastidio. In realtà i nove mesi di attesa sono stati l'attesa più dinamica a cui ho dovuto partecipare. E sono serviti tutti al mio cervello per decriptare quella nuova presenza. Tra me e il Polpetta c'era una membrana di vuoto cerebrale che non riuscivo a riempire a sufficienza. Non capivo quale tipo di madre sarei stata e, a dirla tutta, non lo so neppure ora.
Quando mi dicevano "vedrai, poi ti mancherà il pancione" assumevo la postura da film western e imbracciavo il fucile, niente mi sembrava più assurdo di un'affermazione nostalgica. In realtà qualcosa accade - non subito, non nell'immediato - il cervello lancia l'antivirus e rimuove l'inutile senza cancellare i ricordi. E così ti ritrovi poi a guardare un'altra parentesi materna, a sospirare (di nascosto) dentro a uno sbadiglio, a cercarti l'ombelico (di nascosto) sotto la scrivania e a ripensare che quella curva così priva di spigoli, così rotonda e perfetta possiede in realtà il fascino che solo le grandi attese svelano a un passo dallo stupore, a un passo dalla rivoluzione, a un passo dal noi.

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