sabato 23 agosto 2014

Imum, Iwork, Istanc. Le migliori app di un cervello da mamma.

C’è chi decide di rientrare al lavoro per poter dare (e fare) di più e chi invece non vorrebbe farlo e si ripete, con le preghierine della sera, “la prossima vita rinasco ricca e magra”.
E così dopo mesi di assenza lavorativa ti ritrovi a varcare la soglia dell’ufficio e scopri che ti occuperai della potatura delle felci, e non reagirai perché sarai ancora obnubilata dall'odore di tuo figlio, e lo immaginerai angosciato che piange appeso al vetrata dell'asilo e i tuoi riflessi saranno rallentati al punto giusto, il tuo cervello si sentirà in debito e accetterai di buon grado ogni compito assegnato. Ci sarà poi - dopo qualche giorno di permanenza - la madre che diserberà le felci e invocherà tutte le forze terrene per riavere indietro i suoi preziosissimi ventisei faldoni a righine blu e la madre che invece imparerà ad amare ogni fogliolina messa a sua disposizione, perché il bonifico a fine mese le risulterà un'ottima motivazione per collaborare alla fotosintesi clorofilliana di quei poco loquaci vasi in rattan.
In entrambi i casi la mamma tornerà a casa con un solo scopo: accocolarsi sotto il naso del suo piccolo uomo, contarne le caccole, accertarsi che tutto sia in ordine, e dimenticarsi rapidamente di ogni qualsivoglia dinamica lavorativa.
Le priorità improvvisamente cambieranno e smisterai ogni problema come dentro ad una sfida a shangai. Sfilerai dal mazzo le perturbazioni mentali della collega prossima alla menopausa con una leggerezza che prima non ti saresti minimamente permessa di adottare. Grazie a questo meccanismo di scarto che, allargando il suo campo di azione smercia la metà delle cose che prima inutilmente ti angosciavano, riuscirai ad avviare una lavatrice, ringraziare madama Peppa Pig che ipnotizzerà tuo figlio mentre gli infilerai in bocca 250 gr di passato di verdure, passarti la pinzetta sulle sopracciglia, postare una foto su facebook, stirare due camicie e sbattere in aria otto magliette fingendo di averle stirate... nella convinzione più ferrea di aver steso così bene da non doverle neppure piegare. E così le lascerai lì, sulla sedia, in attesa di essere direttamente indossate.
Il cervello ti scaricherà gli aggiornamenti in automatico, anche quando ti sembrerà di essere così stanca da non poterti neppure spogliare e ti addormenterai così, con gli stessi pantaloni con cui sei andata al lavoro e la mattina ne gioirai perché il tempo risparmiato per vestirti sarà tutto dedicato all'eyeliner che da mesi bramavi di poter riutilizzare.
Questo è un ovvio autogol, ora quelle rare volte che mi vedrete truccata come un'opera di Gauguin, guarderete i miei pantaloni e vi chiederete se sono il refuso di una notte passata a dormire all'addiaccio e vi salirà il pensiero che forse quella della mamma è un'esistenza difficile, a tratti impossibile. Eppure devo smentirvi.
Ci sono giorni, settimane addirittura, in cui la stanchezza sembra un guerriero ninja che mi insegue per colpirmi insistentemente alle tibie. Giorni in cui i problemi si fanno più complessi e i sospiri prendono il posto dei respiri. Giorni in cui vorrei premere un tasto - uno qualsiasi - per spegnere tutto e riavviare il sistema. E poi però ci sono notti in cui mi alzo, senza che nessuno mi abbia chiamato, vado in bagno, faccio pipì e, mentre torno a letto, mi affaccio alla sua camera, lo guardo che dorme scoperto, con un piede in verticale, il ciuccio infilato in un occhio e la piega del cuscino tatuata sulla guancia e , ricomincio a respirare, come si deve, come il ritmo del suo cuore mi detta nel silenzio perfetto della notte.
Perché ora le regole le dettano loro e questa, forse, è la nostra più grande fortuna.

Nessun commento:

Posta un commento