Carcinoma è una parola brutta, come brutto è il suono che produce quando qualcuno se la fa passare in bocca. Con un’altra parola come - chessò - pantolofola ci si muove meglio, molto meglio. Pantofola è un termine morbido, lo mastichi come una gelatina di frutta e le consonanti non ti si infilano tra un dente e l’altro come pezzi di vetro.
Vabbè, questo per dire che
la mia tiroide ha deciso di dare ospitalità a taluni elementi poco graditi e
lo ha fatto a mia insaputa. Ecco perché ho deciso di sfrattarla senza
preavviso, che di tutti gli atteggiamenti cazzuti questo mi pare proprio il più
solenne. Del resto per un inquilino che non rispetta i regolamenti si applicano
sanzioni doverose e quindi «bye-bye little butterlfy, go away e passa la pezza
prima di chiudere».
Detto questo – e tutto d’un
fiato, che se replicate in coro vien qui Trump a controllare – voglio precisare
che sto bene. Non voglio quindi vedere emoticon piagnone, volpine affrante o
panda impiccati a uno Stecca Lecca, così come non voglio sentirmi sul collo il
peso di certi sospiri. Sono settimane che vivo in mezzo a una costante corrente
emotiva e c’ho i reumatismi che mi trapassano il cuore, credetemi. L’ansia
degli altri è pesante da sostenere, più della propria. Non che l’indifferenza
sia una passeggiata di salute, eh, ma questa è un’altra storia e merita un
passaggio a nord-ovest che in questo momento non riesco ancora a praticare.
E allora lo scrivo dentro a
un post, con il solo intento di dirlo a tutti senza guardare negli occhi
nessuno, perché la paura che si manifesta in mezzo alle ciglia degli altri
indispone quasi quanto la noncuranza e io, in questi mesi, ho fatto una
fatica disumana nel tentativo di sganciarmi dal senso di responsabilità che mi
lega alle persone. È un attimo sentirsi in colpa pure se non hai fatto
niente.
Per giorni ho portato
avanti la convinzione che dentro alla carte che maneggiavo non ci fosse il mio
nome, che la cosa di cui tutti discutevano non mi riguardasse affatto. Per
giorni mi sono convinta che non poteva essere vero. Ho sempre avuto il
controllo di tutto, perderlo mi pareva impossibile, inumano. E così ho messo in
pratica quello che fanno certi animali feriti, mi sono allontanata, ho lanciato
i chilometri a mio figlio, perché di tutte le interrogazioni le sue mi
sembravano le più insostenibili, ho finto come non ho mai finto in vita mia,
perché ogni lacrima che disperdevo pareva fatta di amianto e il terrore che gli
altri ci morissero dentro a mie spese era sempre troppo alto.
Carcinoma è un sostantivo.
Un sostantivo che ho sempre evitato di usare. E così adesso lo scrivo qui, per
esteso, con il solo intento di ridistribuirne il peso, con la sola volontà di
concedermi alla comunicazione facile e immediata. E poi devo lasciar fare al
cursore quello che non sono riuscita a fare per mesi: domare le coniugazioni,
ricollocare gli aggettivi, misurare gli avverbi. Le parole sono difficili da
gestire - l’ho urlato per giorni con una rabbia feroce che non sapevo gestire -
ma l’errore mi guardava da sotto in su mentre stavo lì a dondolarmi sul ciglio
del pregiudizio. Le parole sono l’opportunità che ci concediamo, che molto
spesso neppure vediamo e possono essere leggere, pure quando sono brutte e
sbrecciate, e possono volare in aria come farfalle pure dopo che le abbiamo
accusate come proiettili.
Quindi, questo è.
Ho sfrattato quella
sfaccendata della mia tiroide e ricominciato a mettermi il fondotinta fin
dentro ai calzini.
So che qualcuno in queste
settimane ha faticato a riconoscermi, perché ho smesso di adattarmi agli altri,
ho smesso di dire la cosa giusta in virtù del comportamento sbagliato, ho
smesso di curare le debolezze, di accudire, ho smesso di essere quella che
mi imponevo di essere. Qualcuno per questo si è allontanato, ma va bene, non
tutti sono come me e, per contro, io non posso essere come gli altri. E questa
consapevolezza – credetemi – di tutte le cure mi pare la più
efficace.
Quindi, amicici, pregate
per me, ma non nel senso religioso della questione, fate che sia una preghiera
corale in cui vi (e mi) augurate una sola cosa: che il vaneggiamento
perduri e lo scazzo pure, che io da placida sono noiosa e da buona per nulla
intrigante.
E comunque, nel giro di
qualche settimana tornerò più bella che mai, quindi se mi incrociate sotto
l’arco di un semaforo o tra i petti di pollo del supermercato mollate il
Labello rosa che divorate con così tanta insistenza e passatevi sulle labbra
dello scotch da cantiere, che la mandibola è un attimo che si sfracelli al
suolo e la meraviglia, si sa, genera sempre stupore.
Io ve lo dico, poi – come
sempre – fate un po’ quel cazzo che vi pare.
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