lunedì 3 aprile 2017

CARCINOMA. Il peso di certe parole.



Carcinoma è una parola brutta, come brutto è il suono che produce quando qualcuno se la fa passare in bocca. Con un’altra parola come - chessò - pantolofola ci si muove meglio, molto meglio. Pantofola è un termine morbido, lo mastichi come una gelatina di frutta e le consonanti non ti si infilano tra un dente e l’altro come pezzi di vetro.

Vabbè, questo per dire che la mia tiroide ha deciso di dare ospitalità a taluni elementi poco graditi e lo ha fatto a mia insaputa. Ecco perché ho deciso di sfrattarla senza preavviso, che di tutti gli atteggiamenti cazzuti questo mi pare proprio il più solenne. Del resto per un inquilino che non rispetta i regolamenti si applicano sanzioni doverose e quindi «bye-bye little butterlfy, go away e passa la pezza prima di chiudere».

Detto questo – e tutto d’un fiato, che se replicate in coro vien qui Trump a controllare – voglio precisare che sto bene. Non voglio quindi vedere emoticon piagnone, volpine affrante o panda impiccati a uno Stecca Lecca, così come non voglio sentirmi sul collo il peso di certi sospiri. Sono settimane che vivo in mezzo a una costante corrente emotiva e c’ho i reumatismi che mi trapassano il cuore, credetemi. L’ansia degli altri è pesante da sostenere, più della propria. Non che l’indifferenza sia una passeggiata di salute, eh, ma questa è un’altra storia e merita un passaggio a nord-ovest che in questo momento non riesco ancora a praticare.

E allora lo scrivo dentro a un post, con il solo intento di dirlo a tutti senza guardare negli occhi nessuno, perché la paura che si manifesta in mezzo alle ciglia degli altri indispone quasi quanto la noncuranza e io, in questi mesi, ho fatto una fatica disumana nel tentativo di sganciarmi dal senso di responsabilità che mi lega alle persone. È un attimo sentirsi in colpa pure se non hai fatto niente.

Per giorni ho portato avanti la convinzione che dentro alla carte che maneggiavo non ci fosse il mio nome, che la cosa di cui tutti discutevano non mi riguardasse affatto. Per giorni mi sono convinta che non poteva essere vero. Ho sempre avuto il controllo di tutto, perderlo mi pareva impossibile, inumano. E così ho messo in pratica quello che fanno certi animali feriti, mi sono allontanata, ho lanciato i chilometri a mio figlio, perché di tutte le interrogazioni le sue mi sembravano le più insostenibili, ho finto come non ho mai finto in vita mia, perché ogni lacrima che disperdevo pareva fatta di amianto e il terrore che gli altri ci morissero dentro a mie spese era sempre troppo alto.

Carcinoma è un sostantivo. Un sostantivo che ho sempre evitato di usare. E così adesso lo scrivo qui, per esteso, con il solo intento di ridistribuirne il peso, con la sola volontà di concedermi alla comunicazione facile e immediata. E poi devo lasciar fare al cursore quello che non sono riuscita a fare per mesi: domare le coniugazioni, ricollocare gli aggettivi, misurare gli avverbi. Le parole sono difficili da gestire - l’ho urlato per giorni con una rabbia feroce che non sapevo gestire - ma l’errore mi guardava da sotto in su mentre stavo lì a dondolarmi sul ciglio del pregiudizio. Le parole sono l’opportunità che ci concediamo, che molto spesso neppure vediamo e possono essere leggere, pure quando sono brutte e sbrecciate, e possono volare in aria come farfalle pure dopo che le abbiamo accusate come proiettili.

Quindi, questo è.

Ho sfrattato quella sfaccendata della mia tiroide e ricominciato a mettermi il fondotinta fin dentro ai calzini.

So che qualcuno in queste settimane ha faticato a riconoscermi, perché ho smesso di adattarmi agli altri, ho smesso di dire la cosa giusta in virtù del comportamento sbagliato, ho smesso di curare le debolezze, di accudire, ho smesso di essere quella che mi imponevo di essere. Qualcuno per questo si è allontanato, ma va bene, non tutti sono come me e, per contro, io non posso essere come gli altri. E questa consapevolezza – credetemi – di tutte le cure mi pare la più efficace.

Quindi, amicici, pregate per me, ma non nel senso religioso della questione, fate che sia una preghiera corale in cui vi (e mi) augurate una sola cosa: che il vaneggiamento perduri e lo scazzo pure, che io da placida sono noiosa e da buona per nulla intrigante.
E comunque, nel giro di qualche settimana tornerò più bella che mai, quindi se mi incrociate sotto l’arco di un semaforo o tra i petti di pollo del supermercato mollate il Labello rosa che divorate con così tanta insistenza e passatevi sulle labbra dello scotch da cantiere, che la mandibola è un attimo che si sfracelli al suolo e la meraviglia, si sa, genera sempre stupore.


Io ve lo dico, poi – come sempre – fate un po’ quel cazzo che vi pare.

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